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Sandro Formica

Sandro Formica

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Ciao Sandro, dicci chi sei e che lavoro fai?

Dopo una prima parte della vita centrata sul turismo e l’accoglienza, oggi sono qualcuno che vorrebbe contribuire a dare più autoconsapevolezza agli essere umani: questo è il mio obiettivo. Vorrei essere uno strumento che facilita l’autoconsapevolezza per poi raggiungere la felicità: una felicità sostenibile, quindi, non una felicità effimera, non la felicità che dura tre giorni, che dipende da elementi esterni ma un qualcosa di radicato e centrato.

Tu sei un professore, giusto?

Sì, io sono un professore e insegno sia negli Stati Uniti che in diverse università italiane. Negli USA il mio punto riferimento è la Florida International University, la quarta università più grande per numero di studenti negli Stati Uniti e ho iniziato con un corso che si chiama Personal Empowerment. Poi insegno (a livello invece di master universitario) un altro corso che si chiama Managing Self and Others, quindi “gestisci te stesso, gestisci gli altri”; infine tengo un corso che si chiama Positive Organizations, che tratta dell’integrazione della felicità all’interno delle aziende.

Ti facciamo una domanda fuori tema: come reputi che questo tipo di competenza sia recepita negli Stati Uniti rispetto all’Italia? Vedi che gli Stati Uniti la prendono più sul serio, è più radicata oppure vedi delle analogie fra i due Paesi?

Per carità… ci sono molte analogie. Spesso pensiamo che gli Stati Uniti siano avanti per tante cose… lo sono perché ci si buttano prima, perché hanno meno catene dell’Italia e quindi sono molto più aperti al cambiamento. Però non credere, quando ho presentato il progetto per il corso di Personal Empowerment al Senato accademico, mi hanno guardato come se fossi matto… quando poi ho portato centinaia di articoli accademici a supporto, non hanno potuto fare altro che accettare. Ma non pensare che la considerino una nuova disciplina o comunque una nuova area di studio, semplicemente passi sotto il radar e ti accettano, forse perché pensano che non dai fastidio e vai avanti così. È molto simile la situazione in Italia. In Italia è più questione di persone che ti ammirano ti rispettano come persona, e si aprono a te e alle tue proposte perché sanno che sono solide e che non vai a vendere fumo. Così è successo all’università di Palermo, dove c’è un corso in inglese chiamato Positive Organizations (Organizzazioni Positive) all’interno di una laurea magistrale internazionale, e più di metà degli studenti sono orientali. Oppure all’università di Foggia, che ha deciso di creare con noi un percorso di autoconsapevolezza (un percorso importante: 12 ore e 12 crediti formativi) da mettere a disposizione di tutti gli studenti della magistrale, a prescindere dal dipartimento di provenienza, poco prima della loro uscita dall’università per lavorare sulla Scienza del Sé, sulla felicità.
Questo per dirti che in realtà anche università italiane meno blasonate, considerate meno prestigiose, sono aperte e interessate a proposte innovative.

Passiamo alla seconda domanda. Noi siamo arrivati alla conclusione che il nostro è un ottimismo fatto sì di entusiasmo, ma anche tanto di collaborazione, organizzazione e flessibilità. Sono elementi fondamentali: se mancano, non esiste neanche l’ottimismo.
Quindi la domanda è: com’è il tuo ottimismo?

Parto da organizzazione e flessibilità. Io sono da una parte un one-man show, nel senso che sono un professore universitario e comunque un consulente; nello stesso tempo ho un team qui in Italia, il team della Scienza del Sé, composto da diversi professionisti che si mettono in discussione e lavorano con me su progettualità varie. Quindi sono assolutamente d’accordo che l’ottimismo si fondi sulla flessibilità. A maggior ragione durante il Covid: noi siamo cresciuti di più proprio a partire dal lockdown, da febbraio del 2020. Ti faccio un esempio: il primo progetto si chiamava Forti Insieme, dove il mio gruppo ha donato 400 ore alle persone che erano un pochino in difficoltà. Abbiamo trasformato i contenuti che io condivido in aula in contenuti su cui lavorare one-on-one, aprendoci alle domande di tutti, per aiutare queste persone a riflettere sui loro bisogni, sui loro valori, sul loro proposito, e cercare in qualche modo di resettarsi e capire quale opportunità potesse essere offerta da questo momento particolarmente difficile.

In questo caso la flessibilità è stata fondamentale, perché senza quel tipo di flessibilità io avrei continuato a insegnare esclusivamente online e limitarmi ai miei studenti; invece l’obiettivo era proprio di dare un contributo concreto.

E quando abbiamo misurato il disagio emotivo in queste sessioni one-on-one, da un’intensità di 8 su 10 (quindi piuttosto alta) dell’emozione negativa, che poteva essere frustrazione tristezza depressione eccetera, siamo riusciti a portarla addirittura sotto il 4. Poi è chiaro che l’emozione negativa in seguito riprende il controllo, tuttavia in un’ora di colloquio (in cui loro erano i protagonisti, noi facevamo solo domande) riuscivamo a far riflettere la persona sul suo sé, la sua centratura, le sue possibilità e progetti di vita, il suo proposito, e questo le ridava la forza che aveva un po’ perso di vista.

La terza domanda riguarda una tua “storia di ottimismo”: nella tua vita ti sarà capitato un momento in cui il tuo approccio ti ha permesso di affrontare una difficoltà e di andare avanti… ce la racconti brevemente?

A dirti la verità, faccio un po’ di difficoltà a parlare di ottimismo partendo da una storia “positiva”. Preferisco partire da una storia più o meno negativa: il momento in cui ho ricevuto il mio dottorato negli Stati Uniti. Il processo di dottorato lì è molto diverso dall’Italia: si fanno anni e anni di lezioni sulla costruzione, la teoria, statistica, metodologia 1-2-3… alla fine, concluso il percorso, si affrontano degli esami preliminari che durano una settimana, poi si inizia scrivere la dissertazione, e infine la si discute davanti a una commissione di professori. Io seguo tutto questo percorso e finalmente ottengo il mio PhD, il dottorato americano. E parto subito per l’Italia, perché non vedevo l’ora di dirlo a mia madre (mio padre morì quando io avevo 23 anni).
Quindi arrivo a Perugia, tutto di corsa, con questa grande grande voglia di condividere con mia madre questo traguardo… arrivo da lei e le dico “Mamma, mamma, ho una gioia immensa che vorrei dividere con te: ho un dottorato negli Stati Uniti, in un dipartimento e con una specializzazione che (a quello che so) non ha mai acquisito nessun italiano. Sei orgogliosa di me?” E lei mi ha detto “Sì sì, figliolo, tanto” per poi cominciare subito a parlare di mio padre: e la conoscenza, e la cultura, e l’educazione di mio padre… insomma, non l’ha detto esplicitamente, ma il senso era che lui non avrebbe mai potuto essere superato. Questo per me è stato un momento piuttosto pesante, ma poi ho riflettuto ed è arrivata una bella consapevolezza e positività. Mi sono detto “Ma tu guarda com’è il mondo, mio padre era prima un insegnante delle superiori di matematica fisica, poi, quando hanno aperto gli uffici regionali nel 1973-74, è diventato dirigente all’assessorato al turismo e io sono diventato un professore (come era stato lui nella prima parte della sua vita) ma di turismo, il focus della sua seconda vita”. E la consapevolezza che ne è derivata mi ha portato a chiedermi Chi sono? Che voglio? Ho passato 35 anni della mia vita a cercare di ottenere l’approvazione e l’ammirazione che mia madre aveva avuto per mio padre: lui era un insegnante delle superiori, io sono un insegnante universitario e per di più in un altro Paese, di più non posso fare. E allora, questo percorso che ho fatto, forse non era un percorso veramente “mio”, ma solo un modo per far vedere le differenze tra me e lui?

E quindi, chi sono io? Mi ci sono voluti anni per capirlo. Ma sono molto felice di averlo scoperto, perché per me è stato come nascere di nuovo. Una rinascita. Avrei potuto lasciarmi abbattere,

o far finta di niente e non affrontare il problema: avrei potuto raccontarmi che ormai ero un professore, che avevo già pubblicato su riviste accademiche internazionali, accontentarmi del mio impiego sicuro, del mio stipendio, delle università che mi chiamavano.

E invece mi son detto “Ehi! Sono rinato, a 35 anni: ma che bello!” e sono partito per il mio percorso di scoperta, che ha portato poi allo sviluppo della Scienza del Sé.

Proprio una bella storia, che comunque ci riporta alle origini… perché i genitori, ahimè, ci plasmano parecchio, anche in maniera inconsapevole. La quarta domanda che ho per te riguarda gli inizi della tua attività: eri più o meno ottimista di oggi?

L’ottimismo non è cambiato, è cambiata la forza. Ho più forza, ora, perché ho continuato ad accrescerla. L’ottimismo è più veicolato, più supportato e più stabile, ma il senso dell’ottimismo e quindi il livello di felicità non è cambiato. È aumentata la resilienza, la forza con la quale lo supporto.

Quindi hai avuto più consapevolezza, in qualche modo.

Assolutamente sì, ho anche più esperienza e determinazione e so di essere verso la strada giusta. Ma l’ottimismo è sempre lo stesso, anche perché nel momento in cui ho deciso di fare questo percorso sono dovuto andare contro tutti e tutto, perché ho cambiato pelle.

Immagino che non sia stata una strada facile o comunque conosciuta, e quando ti trovi ad affrontare l’ignoto o sei capace a essere flessibile, oppure non riesci ad andare avanti…

Ti faccio un esempio sciocco: in dipartimento, negli Stati Uniti, mi capita di incrociare dei colleghi che si mettono a ridere di fronte a me, e io lo so che pensano “Ecco l’esperto della felicità, facciamoci una risata”. È chiaro che quando una persona, identificata come esperta di turismo, esperta di strategia aziendale, fa un cambiamento così radicale, si scatenano reazioni anche “particolari”… il mondo non ti supporta, soprattutto all’inizio: poi, se non molli, è inevitabile che tu finisca per travolgere un po’ tutti.

E come affronti i cambiamenti?

Con grande entusiasmo. A 26 anni facevo il direttore d’albergo, ero uno dei più giovani del centro Italia. A trent’anni ho deciso di partire, andare negli Stati Uniti e riprendere a studiare. Cambiamenti ne ho vissuti tanti e di grande spessore: sono andato in un altro continente, a fare tutt’altra cosa e a ripartire quasi da zero (almeno per la percezione comune), rimettendomi a fare lo studente. Il cambiamento più è grande e più lo ricevo a braccia aperte. È chiaro che non è facile, i primi tempi negli Stati Uniti sono stati duri e quando, dopo quattro mesi di master, mi hanno chiesto di fare l’impossibile come sprint finale, ho chiamato l’agenzia viaggi per prenotare un biglietto per l’Italia perché non ce la facevo più… il cambiamento non è mai facile, però ogni volta che ho avuto il coraggio di cambiare ho ottenuto grandi benefici – anche se uno se ne rende conto solo dopo, come dice Steve Jobs i puntini si collegano guardando all’indietro.

Condivido in pieno, purtroppo ci sono poche persone disposte al cambiamento. È un passettino che molti devono ancora fare, è difficile rinunciare alla zona di comfort che è sicuramente più comoda… L’ultima domanda è: che consigli daresti un pessimista?

Allora, se è un pessimista aperto al dialogo gli direi che la sua è paura, è semplicemente paura, e quindi gli chiederei di non credere a me, ma di aprirsi a quello che gli si presenta. I pessimisti in genere sono scettici (e, anche se è molto molto facile essere scettici nella vita, io non ho mai visto un monumento eretto a uno scettico. I monumenti sono per chi ha saputo aprirsi al nuovo e avere il coraggio di condividerlo con il mondo). Il pessimista molto spesso è pessimista per proteggersi. Così gli proporrei di provare, per due o tre mesi, questa nuova metodologia, questo principio di apertura, di sospensione dello scetticismo: mettersi in ascolto, anche senza crederci, per un tempo limitato – due o tre mesi non sono nemmeno l’1% di una vita – e provare come va. Apriti, gli direi, mettiti in ascolto e pratica quello che ascolti, perché sporcarsi le mani è tutta un’altra cosa, e uno scettico tende a evitarlo il più possibile. E poi, alla fine di questa piccola parentesi, tirerai le somme.

Perché se lo scetticismo e la mancanza di ottimismo ti hanno portato a essere così e se sei in contatto con le tue emozioni, è probabile che tu sia emotivamente in sofferenza, ed è sciocco pensare di continuare a essere pessimisti e aspettarsi risultati diversi.

Chi è

Sandro Formica

Sandro Formica, professore presso la Florida International University di Miami, dove è titolare dei corsi Potere Personale e Gestisci Te Stesso, Gestisci gli Altri e del seminario “Organizzazioni Positive”. Autore di libri ed articoli, ha partecipato al World Happiness Summit 2020. In Italia è da oltre un decennio insegnante alla SDA e al Master dell’Università Commerciale Luigi Bocconi, da ultimo è diventato titolare del corso di Economia della Felicità e del corso internazionale di Laurea magistrale in Organizzazioni Positive nel Turismo presso l’Università di Palermo.

È inoltre il direttore accademico e l’erogatore del primo e unico corso di Manager della Felicità o Chief Happiness Officer (CHO), certificato da una università, la Florida International University di Miami, in U.S.A.

Per approfondimenti www.sandroformica.com


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